Il 4 novembre è la festa dell’unità nazionale e delle forze armate. Il governo Meloni ha ribadito con forza la stretta connessione tra violenza istituzionale e nazione. Sui siti governativi si parla di “terre irredente” cui la guerra ha offerto la “redenzione” del tricolore.
Sullo sfondo restano 600.000 morti sul solo piccolo fronte orientale. Sullo sfondo resta un’occupazione militare che si è accanita a cancellare le lingue e le culture diverse da quella “italiana”. Sullo sfondo restano i tanti soldati obbligati a combattere con i fucili dei carabinieri puntati alla schiena. Sullo sfondo restano le decimazioni, le torture, gli stupri di massa . Sullo sfondo restano le migliaia di uomini e ragazzi, che decisero di gettare le armi. In quella guerra, a rischio della vita, disertarono a migliaia, consapevoli che le frontiere tra gli Stati sono solo tratti di matita sulle mappe. Interessano a chi governa, ma non hanno nessun significato per chi abita uno o l’altro versante di una montagna, l’una o l’altra riva di un fiume, dove nuotano gli stessi pesci, dove crescono le stesse piante, dove vivono uomini e donne che si riconoscono uguali di fronte ai padroni che si fanno ricchi sul loro lavoro.
La storia delle rivolte, delle “tregue spontanee”, dell’odio per gli ufficiali, pur ricostruita in numerosi studi, non è mai stata inserita nei programmi scolastici, perché la propaganda militarista nelle scuole non è mai cessata. Anzi! I militari entrano nelle scuole come “esperti”, per indottrinare ed arruolare ragazzi e ragazze.
Ancora oggi, dopo oltre un secolo da quelle trincee impastate di sangue, sudore, fango e rabbia, la retorica patriottica, il garrire di bandiere e le parate militari sono strumento di legittimazione delle avventure militari italiane all’estero, dall’Africa all’Ucraina, dei militari per le strade, della guerra ai migranti, del moltiplicarsi della spesa in armamenti. Contestare le celebrazioni del 4 novembre non è mero esercizio di doverosa memoria verso i disertori che, su tutti i fronti, fuggirono dalla Grande Guerra, ma si inserisce nei percorsi antimilitaristi di chi, sui vari territori, lotta contro basi militari e poligoni di tiro, fabbriche d’armi e missioni militari all’estero.
Lo spot pubblicitario del 4 novembre 2023 realizzato dall’esercito pare ispirato direttamente dalla neolingua orwelliana. “Difendiamo la pace, ogni giorno” è lo slogan che accompagna immagini di vita quotidiana affiancate da uomini e donne in armi. Una cortina fumogena eretta per alimentare l’illusione che solo il monopolio statale della violenza ci ponga al sicuro. Quante persone muoiono nella guerra del lavoro, dove le vite delle persone sono solo un costo da ridurre all’osso? Quanti muoiono perché non possono accedere a servizi di prevenzione e cura? Quanti muoiono perché non c’è manutenzione adeguata delle linee per i pendolari, quanti annegano nel fango perché un ordine sociale basato sulla logica del profitto considera il cambiamento climatico un trascurabile effetto collaterale?
L’aumento costante della spesa militare, per rendere sempre più efficiente la macchina da guerra, è contestuale alla costante riduzione del servizi essenziali: salute, istruzione, trasporti di prossimità, difesa da frane ed alluvioni sono le prime vittime di chi “difende (in armi) la pace ogni giorno”. Nei fatti ogni giorno le nostre vite sono sempre meno sicure.
Sullo sfondo, ben celata, c’è la partecipazione diretta di quelle stesse forze armate in diversi teatri di guerra, che potrebbero deflagrare in un conflitto interimperialista a geografia variabile, in cui nessuno potrebbe illudersi di essere al “sicuro”.
La voce fuori campo che accompagna lo spot dell’esercito recita. “Oggi è un giorno di pace. Un giorno come tanti perché migliaia di donne e uomini si impegnano affinché nessuno mai possa portarci via la cosa più importante che abbiamo: la possibilità di vivere in un Paese pacifico, libero e sicuro. È questa la missione delle nostre Forze Armate: garantire che ogni giorno sia un giorno di pace. Difendiamo la pace, ogni giorno”
A Cutro, a poche centinaia di metri dalle nostre coste sono annegati uomini, donne e bambini, perché le navi in grado di prestare soccorso in un mare in tempesta sono rimaste in porto: sono partiti solo i pattugliatori della guardia di finanza che hanno il compito di fermare ed arrestare. Le forze armate hanno garantito la pace eterna a persone colpevoli di non avere i documenti “giusti” in tasca.
Nei cantieri militarizzati della Val Susa l’esercito occupa e presidia il territorio perché chi ci vive non vuole piegarsi all’imposizione di un’opera inutile, dannosa, devastante.
Il movimento No Tav assaggia dal 2005 il sapore della pace, della libertà e della sicurezza garantita dalle forze armate. Il sapore agre dei lacrimogeni, delle ossa spezzate, delle molestie, della violenza di Stato.
Dalla Sardegna al Friuli e nei tanti altri luoghi dove ci sono poligoni di tiro o spazi di addestramento, l’inquinamento del suolo e dell’acqua ha provocato tumori, e malformazioni ad animali umani e non umani. Effetti collaterali dell’azione di chi, ogni giorno, difende la pace.
Provate ad immaginare quanto migliori sarebbero le nostre vite se i miliardi impiegati per ricacciare uomini, donne e bambini nei lager libici, per garantire gli interessi dell’ENI in Africa, per investire in armamenti fossero usati per casa, scuola, sanità, trasporti.
Quest’anno dal 28 al 30 novembre si terrà a Torino la nona edizione dell’Aerospace and defence meetings, mostra mercato dell’industria aerospaziale di guerra. Un’occasione per tutte le grandi industrie del settore a livello globale di chiudere contratti di vendita e imbastire nuove collaborazioni per la realizzazione di armi sempre più efficaci, sempre più distruttive, sempre più letali. Settima nel mondo e quarta in Europa, con un giro d’affari di oltre 16.4 miliardi di euro, l’industria aerospaziale è un enorme business di morte. Producono cacciabombardieri, missili balistici, sistemi di controllo satellitare, elicotteri da combattimento, droni armati per azioni a distanza. Le armi italiane, in prima fila il colosso pubblico Leonardo, sono presenti su tutti i teatri di guerra. Le armi che uccidono civili in ogni dove, sono prodotte non lontano dalle nostre case.
Il ministro della Difesa Crosetto è tra i fautori dello sviluppo dell’industria bellica. Per tanti “giorni di pace”.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, poligoni di tiro, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Bloccare le missioni all’estero, boicottare l’ENI, cacciare i militari dalle nostre città, fermare la produzione e il trasporto di armi, contrastare la mostra mercato dell’industria aerospaziale di guerra sono concreti orizzonti di lotta.
Se davvero vogliamo vivere liberi e sicuri nel luogo dove abbiamo scelto di abitare dobbiamo liberarci dalle forze armate, dalle frontiere, dagli eserciti, dalla retorica patriottica. La nazione non è un luogo caldo dove stare al riparo, ma uno spazio immaginario che diventa vero quando le forze armate ne fanno una fortezza da difendere da “altri”, diversi, lontani, non troppo umani.
La disumanizzazione di chi vive oltre un confine è il primo passo verso guerre e massacri. Questo terribile ottobre di guerra in medio oriente ne è la dimostrazione più cruda.
Un motivo in più per riempire le piazze del 4 novembre contro tutti gli eserciti, tutte le patrie, per un mondo senza stati né frontiere.
Un motivo in più per partecipare al corteo antimilitarista che si terrà a Torino il 18 novembre.
Maria Matteo
(questo articolo è uscito su Umanità Nova di questa settimana)
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